Per capire come si è giunti oggi a discutere del riconoscimento dello stato di Economia di Mercato, bisogna fare un passo indietro di 15 anni al 2001, quando la Cina entrò ufficialmente a far parte del WTO, l’organizzazione mondiale del commercio. Le conseguenze di tale inserimento sono state impressionanti; il Dragone Rosso contava per il 3,9 % dell’export mondiale nel 2000 mentre oggi è il primo esportatore assoluto con il 12,4 %. Probabilmente in quel lontano 2001 non si immaginò neanche lontanamente che questa apertura al commercio cinese sarebbe stata una delle cause principali della recessione del 2008 e dell’odierna stagnazione economica dell’Europa. La Cina diventò in poco tempo una delle mete più appetibili per gli investitori del nostro continente grazie al basso costo della manodopera e questo provocò una fuga delle nostre imprese verso oriente. Allo stesso tempo l’industria cinese è cresciuta e ha imposto alla nostra una concorrenza spietata sui prezzi generando così la grande crisi del settore manifatturiero da cui ancora oggi i Paesi europei non riescono ad uscire. In particolare il settore siderurgico è stato quello più colpito dall’avvento dell’industria orientale (si veda la Gran Bretagna con il crollo delle acciaierie).
Al momento dello storico inserimento nel WTO della Cina, si stabilì, secondo l’articolo 15 che gli stessi membri dell’organizzazione, 15 anni dopo, si sarebbero pronunciati sulla possibilità di riconoscere a Pechino lo status di economia di mercato. E dunque eccoci qui, a discutere delle possibili conseguenze che una scelta di questo tipo potrebbe causare. Sarà in primis la Commissione europea ad analizzare il tema ed eventualmente a proporre un testo legislativo al Consiglio e al Parlamento europeo entro la fine dell’anno. La decisione non sarà affatto semplice perchè diversi sono gli interessi in gioco; da un lato la Cina è una grande potenza economica mondiale con la quale è necessario mantenere dei rapporti economici e e geopolitici stabili, ma dall’altro essa rappresenta un pericolo per l’industria europea. Inoltre, non dimentichiamo, che il Dragone Rosso non ha proprio tutti i requisiti richiesti per poter essere definito un’economia di mercato. Nonostante i tentativi di apertura al mercato mondiale, rimane ancora un Paese restrittivo nei confronti degli investitori esteri, che concede credito alle imprese al di là dei criteri di economicità e che sussidia interi settori industriali. Non tralasciamo poi la questione importantissima dei diritti umanitari riconosciuti a livello internazionale e che quotidianamente vengono violati dal Governo di Pechino. Come voltare la testa di fronte a ciò?
Ma al di là dei requisiti, i tecnici europei, dovrebbero ragionare prima di tutto sulle conseguenze probabilmente disastrose che il riconoscimento avrebbe per l’economia del nostro continente. Concedendo lo status, l’Europa si limiterebbe drasticamente la possibilità di porre delle misure anti-dumping nei confronti delle imprese cinesi generando un ulteriore ribasso dei prezzi dei prodotti provenienti da Pechino che sarebbe letale per la nostra economia. Gli Stati più colpiti da un’ulteriore restrizione dei dazi anti-dumping sarebbero Italia e Germania, primi esportatori d’Europa e tra i primi nel mondo. Sono proprio le imprese italiane quelle più preoccupate dalla vicenda, considerando che più del 40 % delle aziende difese dai dazi imposti alla Cina, stanno nella nostra penisola. Confindustria con il suo Presidente Giorgio Squinzi si è fatta sentire in merito, dichiarando che la vicenda avrebbe “un impatto devastante per il made in Italy e per l’intera economia europea”. Le dichiarazioni di Squinzi sono poi state sostenute dalla BusinessEurope, associazione che ingloba tutte le confindustrie europee, che ha invitato la Commissione europea a valutare molto bene la situazione prima di prendere decisioni affrettate. Un rapporto dell’Economic Politic Institute rivela che il nuovo status concesso alla Cina porterebbe ad una possibile perdita del 2% del PIL europeo e al rischio di perdita di 2 milioni e mezzo di posti di lavoro, di cui 1 milione tra Germania e Italia.
Pechino continua la sua opera di conquista dei mercati esteri cominciata appena un decennio fa. Ora i Paesi europei sono chiamati a rispondere ad una questione fondamentale per il proprio futuro. Non siamo più solo sotto attacco terroristico, ma anche economico.